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On June 2, 2025
L’antica rivalità indo-pakistana al centro dei progetti infrastrutturali di Cina e India
L’attentato terroristico a Pahalgam, nel Kashmir indiano, in cui lo scorso 22 aprile hanno perso la vita 26 cittadini indiani, ha segnato la ripresa delle ostilità tra India e Pakistan. Il gruppo terroristico “Fronte della Resistenza”, una frangia alleata al movimento pakistano “Lashkar-e-Taiba” ha rivendicato l’attacco, ma Islamabad ha negato ogni tipo di coinvolgimento. Il conflitto, mai sopito, tra le due potenze nucleari affonda le sue radici nella partizione dell’ex colonia britannica nel 1947. Eppure, la recente escalation – con reciprochi attacchi missilistici oltre frontiera e scontri nei cieli tra le rispettive forze aeree – sembra sempre meno una contesa territoriale bilaterale e sempre più un tassello della più ampia competizione strategica che sta sconvolgendo l’ordine politico internazionale.
Rispetto al passato, la rivalità indo- pakistana si è arricchita di una nuova dimensione: lo scontro tra due grandi progetti infrastrutturali che hanno un ruolo cardine nella politica estera rispettivamente di Cina e India. Da una parte la Belt and Road Initiative (BRI), promossa da Pechino, e dall’altra l’India-Middle East- Europe Economic Corridor (IMEC), lanciato nel 2023 da Delhi e sostenuto da Washington, insieme a Arabia Saudita, Emirati Arabi e Unione Europea. Attraverso il CPEC, il corridoio economico tra Cina e Pakistan – uno dei principali pilastri della Via della Seta che ha comportato investimenti per oltre 60 miliardi di dollari – Pechino può infatti accedere dal porto di Gwadar alle rotte commerciali globali senza dover circumnavigare il sudest asiatico. Il punto di ingresso del corridoio in Pakistan è la regione del Gilgit-Baltistan, oggetto di una disputa territoriale tra India e Pakistan strettamente legata al Kashmir.
Pur mantenendo un approccio di equilibrio formale alla questione, Pechino considera il Pakistan uno strumento, più che un alleato strategico, utile a indebolire l’India. Nonostante la forte interdipendenza economica e un interscambio commerciale che l’anno scorso ha raggiunto la cifra record di 118 miliardi di dollari, Cina e India hanno a loro volta una serie di dispute territoriali lungo il confine e, più in generale, sono in aperta competizione per la leadership del sud globale nel nuovo ordine multipolare.
L’India ha risposto alla Cina con l’altrettanto ambizioso IMEC, il corridoio commerciale che punta a ridisegnare le rotte tra Asia e Mediterraneo e che rappresenta in qualche misura un distacco dal tradizionale trinceramento della politica estera indiana. Offrendo ai partner occidentali in cerca di soluzioni di de-risking un’alternativa al modello cinese cesellato sulla BRI, Nuova Delhi punta a contenere l’espansionismo cinese nell’indopacifico, a consolidare il proprio posizionamento geopolitico e a rafforzare i legami con Europa, Stati Uniti e paesi del Golfo. IMEC ha un valore strategico anche per gli USA, visto che permette a Washington di collegare i centri economici di Europa e Asia, nonché le iniziative di cooperazione regionale avviate sotto la sua egida. Tra queste figurano l’Iniziativa dei Tre Mari (Baltico, Adriatico e Mar Nero), la cooperazione Grecia-Israele-Cipro nel Mediterraneo orientale e il forum India-Israele-Stati Uniti-Emirati Arabi Uniti (I2U2) in ambito economico e militare.
Anche il ruolo delle potenze regionali contribuisce a complicare il quadro. L’Arabia Saudita intrattiene da tempo una relazione strategica con il Pakistan, fondata su affinità religiose e convergenza in campo militare. Contemporaneamente, Riad coltiva rapporti economici sempre più stretti con l’India, consapevole del potenziale ruolo da protagonista nell’IMEC, che dovrebbe spettarle. L’India è oggi il quinto partner commerciale del regno, e non è un caso che, a seguito dell’escalation, il Ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, abbia visitato Nuova Delhi prima di Islamabad. Anche la posizione dell’Iran rispetto al Pakistan è tutt’altro che lineare. I due paesi hanno vissuto momenti di forte tensione, culminati nel 2024 in una serie di raid incrociati lungo il confine nel quadro della contesa sul Belucistan. In questo caso è stata Pechino a intervenire con decisione per ridurre il rischio di un’escalation, sfruttando il doppio canale della Belt and Road Initiative e della Shanghai Cooperation Organization per attutire le frizioni.
Ancora, la disputa per il Kashmir rappresenta un potenziale banco di prova per le capacità e le tecnologie militari delle due superpotenze, con la Cina decisa a contendere il predominio statunitense anche in questo settore. Nell’ultima escalation, grazie all’impiego di strumentazioni di fabbricazione cinese, tra cui i caccia di quarta generazione Chengdu J-10, l’esercito pakistano è riuscito a mitigare fortemente l’impatto degli attacchi di Nuova Delhi. In gioco non ci sono dunque solo merci e infrastrutture, ma gli equilibri strategici di una competizione che si riverbera a livello globale.
La presenza di interessi esterni così forti non solo irrigidisce le posizioni interne, ma introduce un disallineamento tra le dinamiche bilaterali e le logiche globali. Le controversie territoriali non sono più solo una questione di sovranità o sicurezza nazionale per Delhi o Islamabad, ma portano con sé un significato strategico per Washington e Pechino. Qualsiasi compromesso sul Kashmir avrebbe conseguenze economiche dirette per la Cina, che considera il CPEC un nodo strategico della BRI, e costi politici per gli Stati Uniti, impegnati finora a sostenere l’India come baluardo contro la crescente influenza cinese.
Il raggiungimento del cessate il fuoco in tempi relativamente rapidi ci ha ricordato la paradossale rassicurazione di un conflitto ormai antico. Quella, cioè, di due contendenti la cui consapevolezza del rischio di un’escalation è ancorata nella deterrenza nucleare e si traduce in un lessico di guerra sperimentato e prevedibile. Ma questo lessico sta cambiando. Il conflitto indo-pakistano non è più una questione bilaterale ma è diventato un fronte di una contesa più ampia che si riflette su ogni faglia regionale. Se da un lato l’internazionalizzazione della crisi significa nuove forme di deterrenza capaci di contribuire al calmieramento delle tensioni, dall’altro introduce una variabile di imprevedibilità. La contaminazione di attori esterni, con interessi e priorità strategiche proprie, rischia infatti di alterare il perimetro di uno scontro che per decenni si è mosso entro coordinate conosciute.
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