Published on Rozes Ratio
On October 31, 2025
L’interdipendenza economica internazionale è diventata una componente strutturale della competizione strategica tra Cina e Stati Uniti. L’intensificarsi del confronto ha alimentato l’utilizzo di sanzioni, controlli sulle esportazioni e restrizioni sugli investimenti come strumenti di pressione. La loro applicazione in settori chiave, dalla tecnologia ai semiconduttori, fino alle materie prime critiche, è ormai un’arma di guerra economica.
Questa tendenza è stata codificata con il concetto di weaponized interdependence (Farrell & Newman, 2019): in un’economia globale fortemente integrata, le infrastrutture economiche, dalle catene di fornitura ai circuiti finanziari, diventano strumenti di proiezione del potere statale. Gli Stati Uniti hanno aperto la strada a questo approccio, sviluppando già sotto l’amministrazione Biden strumenti extraterritoriali capaci di colpire attori terzi (si pensi al blocco delle esportazioni verso la Cina attraverso Paesi come l’Olanda o la Corea del Sud). Oggi è la Cina a seguire lo stesso sentiero, iniziando a esercitare un controllo strategico sulle proprie filiere: è emblematica, in questo senso, la recente imposizione di restrizioni all’export per alcuni derivati delle terre rare, fondamentali per l’industria tecnologica globale.
La progressiva normalizzazione di queste strategie di coercizione economica rischia di produrre effetti collaterali di portata sistemica. Se la loro applicazione dovesse estendersi oltre i settori strategici più sensibili, la proliferazione dei regimi di controllo potrebbe compromettere l’efficienza e la stabilità dei mercati globali. Nella migliore delle ipotesi si tratta di un processo costoso, nella peggiore di un fattore di forte destabilizzazione delle catene del valore, che indurrà gli attori privati a salvaguardarsi attraverso gravose misure di ridondanza.
Resta da vedere come la Cina deciderà di strutturare l’enforcement delle proprie misure restrittive. Se in passato Pechino si limitava a vietare l’accesso al proprio mercato o ad arrestare lo stop alle forniture di materiali strategici, oggi Pechino si muove verso forme più sofisticate di coercizione economica. Così come alcuni strumenti americani prevedono ispezioni in loco per l’esportazione di tecnologie dual use, la Cina potrebbe introdurre meccanismi analoghi per affermare una propria giurisdizione extraterritoriale nel controllo dei flussi commerciali.
In questo braccio di ferro, l’Europa rischia di trovarsi schiacciata. Un frangente in cui questa tendenza è chiaramente riscontrabile è quella dell’accesso alle materie prime strategiche, incluse le terre rare. Tuttavia, a livello europeo qualcosa si muove. Con il lancio dell’iniziativa ReSourceEU, la Commissione europea sembra voler replicare lo schema già adottato con RePowerEU, prevedendo l’uso del Recovery and Resilience Facility per finanziare progetti su estrazione, riciclo e stoccaggio di materie prime critiche. Ma per competere davvero, l’Europa dovrà affrontare anche il problema della domanda: finché il mercato premia materiali più economici provenienti da Cina o Stati Uniti, i produttori europei resteranno fuori gioco.
Per le aziende questo scenario impone una forte evoluzione delle competenze in materia di compliance. Il processo di adattamento è già in corso e si assiste a una diffusa crescita di unità specializzate in export control, incaricate di mappare la composizione dei prodotti, monitorare l’evoluzione normativa e valutare il trattamento riservato a ciascun componente da parte delle diverse giurisdizioni. La sempre più alta rilevanza delle politiche sanzionatorie nei rapporti economici internazionali rischia di produrre una frammentazione normativa senza precedenti, costringendo le aziende a operare in un contesto sempre più instabile e disomogeneo. Il risultato è l’emergere di una nuova stagione di incertezza, in cui la mitigazione dei rischi politici e di compliance diventano elementi centrali della strategia d’impresa.
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