Published on Rozes Ratio
On November 28, 2025
La competizione globale sull’intelligenza artificiale non si gioca più soltanto sul piano dell’innovazione, ma sull’intero AI stack: dalla raccolta e organizzazione dei dati al loro stoccaggio, dalla potenza di calcolo ai modelli di base, fino all’integrazione nei prodotti, nei servizi e nei sistemi decisionali. La sfida non riguarda solo la qualità degli algoritmi ma il controllo end-to-end dell’infrastruttura che li regge: gestione dei dati, produzione di semiconduttori, disponibilità energetica e capacità di cloud computing. È in questo spazio che si definisce una nuova declinazione della sovranità nazionale, non più ancorata soltanto a confini e risorse fisiche ma a modelli, dati, standard e capacità computazionale. Rafforzare il controllo sugli ecosistemi algoritmici diventa così un imperativo strategico per contenere dipendenze critiche e prevenire vulnerabilità strutturali.
Lungo questa nuova linea di faglia si confrontano Stati Uniti e Cina, secondo modelli molto diversi. Washington continua a privilegiare un approccio trainato dal settore privato, dall’innovazione delle big tech e dall’afflusso di capitali, mentre Pechino persegue una strategia di pianificazione statale, basata su investimenti diretti, integrazione civile-militare, costruzione di una filiera domestica autosufficiente e promozione di modelli open-source a basso costo nei Paesi in via di sviluppo. Questa differenza riflette due visioni opposte di potere, controllo e legittimità. Gli algoritmi diventano così uno strumento di soft power, veicolo non solo di sviluppo tecnologico, ma anche di norme implicite, criteri di classificazione, priorità informative e logiche decisionali.
Sebbene le democrazie occidentali abbiano storicamente beneficiato di un vantaggio strutturale fondato su libertà, pluralismo e competizione, questo assetto sembra oggi meno adatto a rispondere a una competizione che premia coordinamento strategico, velocità decisionale e integrazione verticale tra pubblico e privato. Quel modello, che per secoli ha garantito alle società democratiche un ambiente fertile per la ricerca e l’innovazione grazie allo stato di diritto e alla tutela della proprietà, appare oggi in rapido assottigliamento, soprattutto in Europa, dove la frammentazione dei dati, la dispersione delle risorse e l’assenza di una visione strategica unitaria stanno progressivamente erodendo la nostra capacità di competere.
Nel frattempo, ha preso forma una “formula” alternativa che combina strumenti della libertà economica con un dirigismo top-down capace di garantire coerenza e allineamento strategico tra pubblico e privato: una prima grande asimmetria nella competizione tra i due modelli di governance. I dati dell’Hamilton Index, un indice che monitora la quota di mercato per Paese in dieci settori industriali strategici, mostrano chiaramente questo scarto: dal 1995 la quota cinese della produzione industriale in questi comparti è cresciuta dal 3 al 25%, mentre quella dei Paesi OCSE è scesa dall’85 al 58%. La Cina oggi domina 7 dei 10 settori chiave dell’indice e presenta un tasso di specializzazione superiore del 70% rispetto agli Stati Uniti, segnalando una capacità significativamente maggiore di orientare la propria economia verso ambiti coerenti con i propri obiettivi strategici.
In sintesi, la Cina si è dimostrata molto più efficace rispetto ai Paesi OCSE nel dirigere la propria economia verso settori funzionali al proprio interesse nazionale. E tutto questo è avvenuto prima ancora dell’esplosione dell’intelligenza artificiale. Oggi, la capacità di raccogliere dati su scala massiva – dai flussi commerciali tracciati nei porti, alla salute individuale, fino alle abitudini di consumo rilevate da app e social media – apre a un ulteriore salto di qualità: quei dati possono essere trasformati in inferenze macro, a loro volta traducibili in politiche industriali di lungo periodo.
Alcuni dei nostri competitor sembrano aver dunque trovato una soluzione gerarchica ed “elegante” al rapporto tra pubblico e privato, capace di garantire un vantaggio strutturale ma incompatibile con i principi dei sistemi democratici. Questo ci costringe a individuare un modello alternativo, mentre il crescente peso delle grandi piattaforme tecnologiche occidentali tende più a spostare potere dalle istituzioni che a rafforzarle. Ridefinire in profondità le relazioni tra Stato e mercato nelle democrazie avanzate diventa quindi una questione urgente e centrale, destinata a incidere non solo sulla sicurezza nazionale, ma sulla stessa sostenibilità del modello democratico così come lo conosciamo.
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